Tschaikowsky im Teatro Massimo Bellini / Catania
Il primo a essere eseguito è Aleksandr, il compositore e pianista russo diventato noto in patria e all’estero già a partire dagli anni Settanta. Subito dopo, il celebre Pëtr Il’ič fa irrompere il Fato in teatro attraverso la conduzione coinvolgente ed elegante di Anja Bihlmaier. Un viaggio tra crescendi radiosi e vagheggiamenti notturni
Parte da Čajkovskij e a Čajkovskij ritorna l’appuntamento della stagione sinfonica che ha visto esibirsi il 31 maggio l’orchestra del Teatro Massimo Bellini sotto la direzione della tedesca Anja Bihlmaier, giovane e premiato talento del panorama europeo. Il primo Čajkovskij è Aleksandr, il compositore e pianista russo diventato celebre in patria e all’estero già a partire dagli anni Settanta. Dalla sua prolifica produzione è stata scelta laSinfonia n. 2 (Aquarius) del 1988-89, che ha proiettato la sala in una dimensione quasi surreale, animata da un moto perpetuo invisibile e da una tensione crescente, capace di strappare il sonno all’uomo e di evocare il passo della notte, l’altezza degli abissi, il quieto scrosciare dell’acqua e l’angoscia della tempesta che oscura la luce delle stelle, in una commistione sensoriale altamente suggestiva che culmina in un crescendo radioso.
Si tratta di una sinfonia moderna a tutti gli effetti, in cui timbri diversi si sovrappongono armoniosamente fra loro e che la critica ha definito non a caso «contemporanea nel senso migliore del termine». La sua complessità va infatti oltre le righe dei canoni classici, dalla struttura tipica della composizione parte per poi spiccare il volo con fluidità, smentendo qualsiasi aspettativa e restituendo un’immagine polifonica della bellezza, tanto passionale quanto brillante. La bacchetta della direttrice si muove sinuosa ed elegante in questo labirinto, suggerendo direzioni alternative e svelando lentamente un itinerario emotivo di grande vigore, da cui quasi non si riesce a prendere fiato, a tal punto lo stordimento è penetrante.
NEFASTO NOTTURNO. Dallo sprazzo folgorante del finale, il concerto riprende con la Sinfonia n. 4 in fa minore (op. 36, 1877) di un altro Čajkovskij, il celeberrimo Pëtr Il’ič del XIX secolo, che con il suo omonimo condivide un’ispirazione a tratti delirante, da vagheggiamento notturno. La fanfara che introduce il tema del primo movimento, però, stavolta porta con sé il presagio di un Fato che offusca la felicità umana per un tempo ben più lungo di quello che separa il tramonto dall’alba successiva. La sua presenza è nefasta e incalzante, è una forza che, come una spada di Damocle, «sta in agguato, gelosamente, per impedire che il nostro benessere e la nostra pace possano diventare piene e senza nubi», secondo quanto scrisse lo stesso compositore all’amica e mecenate Nadežda von Meck.
Non bastano né la malinconia resa lirica dall’oboe durante l’Andantino in modo di canzona né l’estro virtuosistico degli archi in pizzicato dello Scherzo successivo a scacciarla, esattamente come nella vita di Čajkovskij non bastò unirsi in matrimonio con Antonina Miljukova per dimenticare il grande amore provato nei confronti di Vladimir Šilovskij, che nel frattempo aveva preso moglie egli stesso per nascondere la propria omosessualità. Nel caleidoscopio della Sinfonia n.4 si ritrova il riflesso impeccabile di questa disillusione umana desiderosa di sottrarsi alla tirannia del destino ma incapace di tenergli testa, visibile in particolare nel tema C’era una betulla sviluppato durante il quarto movimento (Allegro con fuoco). Per un attimo l’amarezza della sorte pare abbia risparmiato l’uomo quando la fanfara torna a dominare la scena con un richiamo ineluttabile.
LA BELLEZZA OLTRE LA MISERIA. Eppure, nella sua descrizione dell’opera n.36 l’artista ebbe a dire alla von Meck che la gioia è comunque possibile, se la si prova per gli altri, e che la vita continua a essere bella anche mentre la presenza apocalittica del Fato mette a nudo le tristezze e le miserie del mondo. Tale visione si concretizza, in effetti, nel finale accompagnato da triangolo, piatti e grancassa, non appena un’esultanza quasi solenne prende forma nello sguardo coinvolto della Bihlmaier propagandosi nell’intera orchestra, che dialoga tenacemente con i fiati pur di non soccombere. Così, un nuovo crescendo riempie il Teatro di un’allegrezza ostinata, che da Aleksandr Čajkovskij arriva e ritorna a Pëtr Il’ič in un finale altrettanto conturbante.